La lunga serie di attentati che hanno avuto come obiettivo l’uccisione di personaggi importanti o scomodi mentre viaggiavano in automobile ha generato la necessità di costruire modelli speciali particolarmente “corazzati” in grado di resistere, per quanto possibile, alla perforazione da parte di proiettili e allo scoppio di bombe. Nella storia recente delle ultime generazioni abbiamo visto come gli attentatori abbiano colto l’occasione degli spostamenti in automobile delle loro vittime per cercare di eliminarle, a volte riuscendovi e altre fallendo di un soffio. Dall’erede al trono d’Austria (Francesco Ferdinando) al presidente degli Stati Uniti d’America (John Kennedy) al Papa (Karol Wojtyla) e ai magistrati antimafia (Paolo Borsellino e Giovanni Falcone) è un lungo il tragico elenco di omicidi dove l’automobile ha avuto un ruolo determinante nelle scelte degli aspiranti assassini. Talora tuttavia accade che la vettura risulti efficace nella protezione dei trasportati; ad esempio nel caso del presidente francese Charles de Gaulle salvato dalla sua Citroen DS 19 nel 1962. Ma se vogliamo risalire nel tempo ad un episodio in cui fu il veicolo “blindato”, all’epoca un carrozza, a salvare la vita delle vittime programmate, dobbiamo riferirci all’attentato contro Napoleone Terzo del 14 gennaio 1858, a Parigi, quando tre bombe a mano (c’è chi dice cinque) non riuscirono a perforare l’abitacolo, pur seminando nei dintorni oltre 150 vittime tra morti e feriti; l’imperatore non riportò che un graffio ad una guancia. Dei congiurati, quasi tutti italiani, si ricorda soprattutto Felice Orsini (tanto che quel tipo di bombe, piene di chiodi e schegge di ferro, si chiamano “bombe Orsini”) ma ne facevano parte altri “patrioti”, carbonari che odiavano l’imperatore (ed ex presidente) francese per il suo ruolo determinante nella eliminazione della Repubblica Romana del 1849, che riconsegnò al papa il potere temporale. Tra gli attentatori, tutti arrestati in breve tempo, vale la pena ricordare il bellunese conte Carlo Di Rudio che lanciò una delle bombe e di cui ricorre in questo mese di novembre il centodecimo anniversario della morte. Di simpatie mazziniane, aveva combattuto per in difesa della Repubblica Romana e quella sera dell’attentato fuori dall’Opéra, venne arrestato e condotto in carcere. Scampò alla ghigliottina (che invece pose fine alla vita dell’Orsini e di altri) e fu inviato all’ergastolo nella famosa colonia penale della Caienna, nella tropicale Isola del Diavolo della Guyana Francese. Da qui non si esce vivi, salvo che abbia successo qualche rocambolesca evasione come quella cui partecipò il De Rudio, al secondo tentativo, nel 1859. Egli trovò rifugio nella parte britannica della Guyana e, impossibilitato (dati i suoi trascorsi) a tornare in Italia per partecipare al Risorgimento, emigrò definitivamente negli Stati Uniti dove cambiò il nome in Charles DeRudio e si arruolò, come parecchi profughi italiani (se vi capita, andate a leggere i nomi sulle lapidi dei cimiteri della Guerra di Secessione) nella fanteria dell’esercito nordista, impegnato contro i sudisti. Uscitone vivo e promosso al grado di sottotenente, proseguì nella carriera militare passando alla cavalleria, inquadrato, verrebbe da dire “ovviamente”, insieme ad altri italiani, nel leggendario Settimo Cavalleggeri agli ordini dell’ambizioso “generale” (in realtà tenente colonnello) George Armstrong Custer, che aspirava a diventare presidente. Per cui DeRudio partecipò alla più famosa battaglia e sconfitta dell’esercito americano contro i Pellerossa, comandati da Toro Seduto e Cavallo Pazzo, nel luogo “cult” del fiume Little Bighorn, soggetto di tante rievocazioni. A differenza del suo comandante ucciso (ma non scotennato, come talora si dice), la scampò ancora una volta e proseguì nella carriera militare fino ad andare in pensione col grado di maggiore. Morì il primo novembre 1910 a Pasadena (California), assistito dalle tre figlie dal nome emblematico di Italia, Roma e America; ha trovato requie nel Cimitero Nazionale di San Francisco.