Come di consueto, al verificarsi di disgrazie di dimensioni planetarie come l’attuale pandemia, si sviluppa una conseguente e altrettanto diffusa “malattia mentale”, o meglio “mania”, che coinvolge centinaia di migliaia di persone le quali si mettono alla ricerca delle profezie che l’avevano preannunciata. Più precisamente, costoro leggono avidamente (e, quel che è peggio, ci credono) articoli scritti da sedicenti esperti che citano e interpretano i passi profetici. I testi più consultati di solito sono “Le Profezie” di Nostradamus e “l’Apocalisse” attribuita a San Giovanni evangelista; quest’anno però, in occasione del Coronavirus, è balzata alla cronaca la predizione della scrittrice e “veggente” americana Sylvia Browne (1936-2013), autrice di molti libri tra cui “Profezie”. In un paragrafo, troviamo l’annuncio preciso dell’arrivo, attorno al 2020, di una malattia grave alle vie respiratorie che costringerà tutti a indossare le mascherine e guanti per un inverno intero. Questo è un fatto; a mettere in dubbio le doti profetiche della Browne sono i numerosi insuccessi delle sue molteplici attività in campo extrasensoriale. La più clamorosa fu l’affermazione della morte di una ragazza smarrita, e poi ritrovata anni dopo sana e salva, con cui la scrittrice (in versione “medium”) parlava, in diretto contatto con l’”aldilà”. Sia come sia, oggi non è il caso di dare addosso alla Browne, come hanno fatto molti “cacciatori di bufale”; questa volta l’ha azzeccata e diamole (postumo) merito. D’altronde la verifica della profezia è prossima: la pandemia dovrebbe sparire velocemente così come è venuta e ripresentarsi tra dieci anni. Quasi quasi c’è da augurarsi che la Browne abbia ragione e per il 2030 abbiamo tempo di preparaci.
La profezia di Nostradamus è inevitabile, come sempre a posteriori: combinando parole sconnesse con allusioni a congiunzioni astrali è “chiaro” che l’astrologo avvertì che in Lombardia avremmo avuto un’epidemia di questi tempi. Ma anche qui seguono affermazioni di cui potremo avere un facile riscontro: l’epidemia finirà il 1° luglio e sarà preceduta da un terremoto (per la verità ce n’è stato uno a Zagabria il 22 marzo). Ben più gravi dell’analisi critica delle teorie della Browne e di Nostradamus sono le ricorrenti interpretazioni delle disgrazie come preludio a una prossima Fine del Mondo e questo è il caso della lettura in chiave catastrofica dell’Apocalisse. Questo libro, pieno di significati arcani di cui esistono numerose interpretazioni, fa parte solo della Bibbia cristiana (non c’è in quella ebraica) e perciò, come dovrebbe essere noto, esso va letto alla luce della Rivelazione, cioè di quanto ha detto e fatto espressamente Gesù, come descritto nei Vangeli. Di conseguenza esso non può contenere anticipazioni sulla fine del mondo perché come afferma il Cristo (Matteo 24:36) “nessuno ne conosce il giorno e l’ora, nemmeno gli angeli e neppure il Figlio, ma solo il Padre”. Ciò dovrebbe bastare e avanzare per i cristiani e non vedo come gli altri dovrebbero dare significato profetico a un libro che non reputano ispirato. D’altronde a leggere male (cioè senza tener conto dell’affermazione categorica di Gesù) la Bibbia, si sono azzardate previsioni sempre regolarmente smentite. Per il 1666, ad esempio, perché 666 è il “marchio della bestia” o numero satanico (sempre dall’Apocalisse); per il 1844 (William Miller, pastore battista), per il 2000 perché Cristo avrebbe detto (ma non lo ha mai detto) “mille e non più mille”, eccetera. Questo per restare nel nostro ambito europeo e occidentale. Altrove, in Sudamerica, la lettura del calendario Maya data l’ultimo giorno della Terra per il 21 dicembre 2012 e molti se l’aspettavano. La credenza che si stia verificando un evento predetto, come la fine del mondo, in corrispondenza di una pandemia o di un altro tragico avvenimento, come potrebbe essere l’attuale Coronavirus, contiene un ben maggiore pericolo. Essa annulla la capacità di reazione: la gente che ci crede si rassegna all’ineluttabile e cessa di combattere contro il male che l’affligge, rimanendone vittima. È il comportamento “fatalista”, una sorta di fanatismo alla rovescia fatto di rassegnazione che spesso vanifica gli sforzi di chi si adopera per rimediare.