Se non fosse per il disgraziato accidente che gli occorse nel 1912, durante un’operazione chirurgica quasi banale, molto probabilmente anche il comandante Neil Armstrong sarebbe vivo oggi a celebrare i suoi novanta anni, assieme ai compagni della prima avventura lunare dell’umanità (1969) Edwin “Buzz” Aldrin e il “romano” Michael Collins, tutti nati nel 1930. A ripercorrere i fatti della vita del primo terrestre che pose piede sul suolo della Luna ci si rende conto che, quando alla NASA lo scelsero per aprire la porta del modulo di allunaggio e scendere la scaletta, avevano preso la decisione migliore. Armstrong era un pilota espertissimo, che aveva saputo cavarsela in situazioni di estremo pericolo, sia nella guerra di Corea sia nella carriera di pilota collaudatore; due attività in cui fu costretto più volte a lanciarsi col paracadute o eseguire atterraggi di emergenza. Sarebbe divenuto “astronauta” anche senza partecipare ai programmi spaziali delle missioni “Gemini” e “Apollo” perché fu tra i piloti che guidarono famoso “aerorazzo” X15, l’aereo più veloce mai realizzato, in grado di superare i limiti dell’atmosfera. Cessato il servizio alla NASA, pur ricevendo molte offerte, non si schierò mai politicamente (sarebbe facilmente diventato senatore, come fecero alcuni suoi colleghi e tanti altri, per molto meno, dalle nostre parti) e mantenne un profilo riservato, partecipando a tutte manifestazioni che ne richiedevano la presenza senza mai cedere all’esibizionismo. Scrissero parecchio su di lui ma egli autorizzò solo una biografia, dopo molte insistenze da parte degli editori. Alcuni aneddoti sono forse il modo migliore per illustrarne il carattere. Durante i lanci di preparazione del programma Apollo ci fu un guasto che mandò distrutta la capsula di rientro a Terra da cui egli fece appena in tempo ad eiettarsi col paracadute; uscito indenne, terminò tranquillamente al giornata in ufficio. Ritiratosi a condurre una fattoria nell’Ohio, gli rimase la fede nuziale impigliata negli ingranaggi di un trattore, per cui gli si staccò un dito. Egli lo raccolse e lo impacchettò in un sacchetto ghiacciato, in tempo perché glielo riattaccassero all’ospedale dove si era fatto portare velocemente. Quando si rese conto che i suoi autografi erano divenuti preziosi oggetti da collezione smise di farne e quando fece causa ai collezionisti, mai autorizzati, dei suoi cimeli pretese che come risarcimento questi facessero generose donazioni a istituti e opere di carità. Il suo parrucchiere che lo serviva da venti anni, tale Marx Sizemore, arrivò al punto di venderne i capelli per 3.000 dollari, e Armstrong, venutone a conoscenza, ne pretese la restituzione, ovviamente impossibile. Allora impose che il ricavo della vendita fosse devoluto in beneficenza.
I tre coetanei dell’Apollo 11, pur partecipando insieme a tante cerimonie ufficiali, non si legarono con rapporti di intima amicizia restando semplici colleghi e in particolare Aldrin fu sempre “disturbato” dal complesso di essere arrivato secondo. Contrariamente a quanto avviene in tutte le missioni, dove il comandante è l’ultimo a uscire dall’abitacolo, proprio in vista della risonanza futura del primo allunaggio umano, fu data precedenza ad Armstrong, il più equilibrato. Aldrin, che covava un malcelato rancore, durante le passeggiate lunari si vendicò fotografando di tutto meno che il suo compagno, che appare solo di sfuggita, e così rimane lui l’uomo di cui si hanno il maggior numero di immagini a spasso per la Luna durante la missione Apollo 11; infatti Armstrong, libero da complessi, lo riprese in continuazione. Il carattere bizzarro di Aldrin lo portò alla depressione e all’alcoolismo, di cui si dovette curare per un certo periodo. Nondimeno resta famoso il formidabile “cazzotto” che mollò nel 2002, davanti alle telecamere, in faccia al “negazionista” Bart Sibrel perché questi (assertore che Apollo 11 fosse tutta una montatura) lo insultava e lo sfidava a giurare sulla Bibbia di essere stato sulla Luna. Per la cronaca, l’inevitabile processo conseguente lo vinse Aldrin in quanto il suo gesto fu considerato dai giudici una reazione proporzionata a una grave provocazione.