Se ne è andato Diego Armando Maradona, se ne è andato il calcio.
Il mondo, e non solo quello del pallone, si è fermato, tramortito e incredulo di fronte alla notizia che arrivava dall’Argentina. Da lì in avanti è stato un pellegrinaggio virtuale senza sosta, per ore, con un aggettivo usato più di altri: eterno.
Perché eterno lo sarà per sempre, come può esserlo solo chi ha scritto un’era, “El diez” simbolo del calcio per tre generazioni, una storia unica che lo ha portato dal basso in alto, e poi ancora giù per tornare su, saliscendi di una vita spericolata fatta di vette altissime e di cadute fragorose, tra i sogni che ha regalato e i demoni con cui ha dovuto combattere.
Maradona è stato unico, infinito con il suo genio e vulnerabile con i suoi limiti. Il pallone era parte di sé, compagno di vita e alleato fedele. Il suo sinistro non lo calciava, ma lo accarezzava delicatamente, gli faceva fare ciò che voleva, quando voleva e come voleva. Non esistevano avversari, o meglio, se c’erano lui non li considerava, perché bastava un attimo per saltarli in dribbling e puntare dritto verso la porta.
Napoli gli dedicherà lo stadio, che non si chiamerà più San Paolo. Giusto, logico, inevitabile, nessuna città come Napoli lo ha vissuto così nel profondo, nessuna città come Napoli lo ha amato alla follia, perdonandogli eccessi e cadute, trascinata dal suo genio ed esaltata dal suo essere unico e indescrivibile.
Con lui Napoli ha vinto, ma non solo. Perché i due scudetti non sono stati soltanto due gemme da incastonare nell’albo del campionato di calcio, ma la rivincita di un popolo, la risposta del sud rispetto al nord degli anni ’80, icona e simbolo di un popolo che ha potuto finalmente guardare le grandi e ricche potenze del calcio dall’alto verso il basso. Con lui al comando, condottiero di una squadra che da normale è diventata grande. Il primo scudetto, quello dell’86-87, arrivò vincendo a Torino contro la Juventus dopo 32 anni. Non un caso.
Suo è stato quello che la Fifa ha definito “il gol del secolo”, e non potrebbe essere altrimenti. La serpentina contro l’Inghilterra nei quarti di finale di Messico ’86 resterà per sempre, simbolo di un genio inavvicinabile che sfidava la logica, lui che con la palla al piede danzava, mentre i difensori cadevano uno dopo l’altro. Forse la sua partita-simbolo, perché prima aveva segnato il gol irregolare più famoso e accettato di sempre. “La mano de Dios”, il tocco di pugno che superò Shilton, la rivincita beffarda del popolo argentino sull’Inghilterra, con la guerra delle Falkland (o Malvinas per i sudamericani) a fare da silenzioso sottinteso.
Chi lo ha visto giocare può vantarsi di un privilegio unico e impagabile, chi ne ha potuto ammirare la classe ha visto cose che non si possono raccontare. Basta fare un giro sul web per rivedere i suoi gol. Mettetevi comodi, ce ne sono tanti, bellissimi, perché nessuna delle sue reti è stata banale, in ognuna c’era quel pizzico di “Pibe de Oro”, una spruzzata di genio che diventava la sua firma.
Una volta, intervistato, disse di se stesso: “Grazie per aver giocato a calcio, perché è lo sport che mi ha dato più allegria, più libertà, come toccare il cielo con una mano. Sì, metterei una lapide che dice ‘grazie al pallone'”.
Grazie a te, eterno Diego.