Pubblichiamo questo articolo scritto da Luca Telese sull’Unione Sarda, segnalato da Leonardo Coen, merita di essere letto.
“E mentre raccontava, Gigi sorrideva: ‘Mi cacciarono dal collegio, per la terza volta. E mia madre gridava: ‘Adesso te ne andrai a lavorare!’. Lei dispiaciuta forse arrabbiata, me le passò. Io eccitato, forse anche un po’ felice, ma feci in tempo a pentirmene.
Mi prese una azienda che montava gettoniere e pulsantiere negli ascensori – sospirava Gigi – e quando dovevo scaricare il furgone carico d ferro e acciaio chiudevo gli occhi. Rivedevo le mie notti in collegio da bambino, nascosto sotto il lenzuolo a piangere. Poi riaprivo gli occhi e come per magia ero riuscito a scaricare il furgone’.
Solo quando si perde davvero, si capisce fino in fondo il valore di ciò a cui rinunciamo per sempre. E in queste ore, l’enorme onda di emozione che attraversa il paese unisce chi ha sempre amato Gigi a chi – soprattutto i giovanissimi – lo scopre solo adesso. Non perdiamo solo un campione, non solo un uomo straordinario, ma uno degli ultimi del tempo dei giganti, il simbolo di una generazione italiana.
I cuori Rossoblù dello scudetto venivano dalla polvere. Dalle province e dalle periferie del paese. Angelo Domenghini da bambino portava brocche al tavolo dell’osteria paterna, da ragazzo era diventato operaio. Beppe Tomasini lavorava in fonderia, tra i vapori della colata.
“Riccio” Greatti porta ancora con orgoglio, sul labbro una cicatrice di coltellaccio di macellaio, guadagnata da piccolo, disossando nella bottega paterna. Adriano Reginato era in cartiera a lavorare quando si era ammalato il padre, per campare la famiglia. Comunardo Niccolai, magazziniere a Sassari, Corrado Nastasio, l’unica riserva “innamorato” del suo titolare, partito a scaricare casse, portuale a Livorno.
Gli unici due che “stavano bene di famiglia”: l’indimenticabile capitan “Piero” Cera, che però litigava con un padre “borghese!” direttore di banca, convinto che il calcio lo “rovinasse”.
E il dolcissimo Bobo Gori un giorno mi disse: “Io, figlio di un emigrante diventato ristoratore di successo, ammiravo la loro forza, imparavo da loro”.
Ricky Albertosi, figlio d’arte del portiere di Livorno mi raccontò: “Volevo fare il grande salto, pensa, mi immaginano maestro elementare”.
Cesare Poli serviva gazzose e panini al bar di famiglia, durante la pausa mensa della fabbrica di fronte.
Mario Martiradonna era figlio di una umile e prolifica famiglia pugliese. Un giorno, quando Riva annunciò alla squadra che rifiutava la Juve fece esplodere lo spogliatoio dicendo: “Meno male, Gigi: io devo ancora finire di pagare la cucina!”.
Nati sotto le bombe, durante o dopo la guerra. Tutti affamati, come Gigi, di vita. Avevano attraversato il ferro e il fuoco, alcuni di loro cercando il calcio come strumento di emancipazione. I più “vecchi” erano nati tra il 1937 (Regi) e il 1939 (Ricky), e il 1946 (il gruppo dei quattro più giovani), nati con la Costituente. Tre di loro tre orfani: i due terzini, Eraldo Mancin e Giulio Zignoli, detto “il pretino” (perché i comboniani, per sfamarlo l’avevano preso in seminario).
Orfano di padre anche mister Scopigno.
E Riva era la quintessenza di questa autobiografia di una nazione che si rimetteva in piedi dopo la guerra: nato nel ’44, quando l’Italia era una trincea, lombardo di lago o a Leggiuno, due volte orfano, una sorella morta giovane (“di stenti”), quando in ospedale si pagava la degenza. Un padre trafitto da un ingranaggio fabbrica, una madre persa prima dei 18 anni.
Era un concentrato di dolore e rabbia, ma anche una bomba di speranza e passione. Un esercito di “migranti economici” in Sardegna: toscani, lombardi, veneti, friulani.
De Luca se Nessuno era sardo, e quasi tutti lo diventarono. E Gigi: “Non essendo sardi, abbiamo scelto di esserlo”.
Assomigliavano tutti agli italiani che si innamorarono di loro, e di Gigi.
Partiti dal nulla, ma arrivati ovunque, insieme, nell’Italia del boom: consumi, del benessere, rivoluzione sessuale, diritti, canzonette, vespe, lambrette, ombrelloni al mare.
È stata l’ultima volta che chi tifava somigliava a chi giocava.
Chi li aveva spediti in Sardegna credendoli – per motivi più diversi “scarti” – finì per maledire se stesso.
Ecco perché nessuno di loro perse la testa, dopo il calcio.
Ecco perché quei ragazzi sono stati gli ultimi italiani che hanno preso l’ascensore sociale in questo paese.
Ed ecco perché il Gigi che amo è un sorriso in una nuvola di fumo, nella poltrona di casa: “Bene, ti dicevo delle pulsantiere e delle gettoniere. Entravo in fabbrica, finivo il lavoro, poi scappavo anche da lì, saltando un muro. Arrivano i primi soldi, i goal, il benessere, l’amore di una città. Poi la nazionale, i più begli alberghi del mondo, Parigi, Londra, Berlino. Ma ogni volta che entravo in un palazzo, quando salivo, guardando la pulsantiera dell’ascensore, mi ricordavo da dove venivo.
Pensavo a mia madre che non si era goduta nulla, a mio padre morto, a mia sorella, che non c’era più.
Ed è così che, anche se apparentemente continuavo a salire in alto – sospirava Gigi – sono sempre rimasto con i piedi ben piantati per terra”.
Raccontatelo nelle scuole ai ragazzi di oggi.
Foto: Calciomercato.com