Mentre i negozi rimangono vuoti e ai piani alti delle aziende di moda non sanno più cosa inventarsi per coinvolgere la clientela o ,almeno, per averne una, Lidl fa il botto. Non fa in tempo ad annunciare l’arrivo in Italia dei suoi due capi (calzini in spugna logati e t-shirt) e due accessori (ciabatte di plastica e, soprattutto, le ambitissime sneaker) a basso costo, abbinabili tra loro in una marea di crash estetici, per vedere le folle riversarsi nei supermercati a litigarsi un paio di scarpe a 12,99 euro.
Trend topic e meme su Instagram a seguire per incoronare il definitivo successo insieme al sold out. Inevitabile e prevedibile, visto che il boom c’era già stato in altri paesi europei e il desiderio era così fuori controllo che i più astuti, al pari di collezionisti d’arte, si erano accaparrati l’amato bene per le infinite vie dell’online per poi rivenderlo a prezzi più che maggiorati e portando a casa un cospicuo guadagno.
La veloce ascesa verso l’empireo del cult, però, non è certo dovuta ai reseller. La loro ombra, forse, si è proiettata anche sulle ceste delle offerte speciali e a tempo limitato delle Lidl nostrane, ma sicuramente i rivenditori armati di click non sono stati la maggioranza delle folle in balia delle ciabatte logate.
Vero anche che da anni si parla di un’esaltazione del brutto, con special guest Alessandro Michele. Quella scuola di pensiero che abbraccia la normalità con tutti i suoi difetti e che porta in passerella abbinamenti bizzarri e capi pensati non tanto per esaltare il fisico o, peggio ancora, per ostentarlo, ma per mostrare ciò che esso cela: pensiero, estetica dissonante e personalità. In fondo, cosa potrebbe esserci di più brutto di calzare un paio di scarpe che somigliano all’insegna di un discount?
Ci sarebbe anche da notare quanto una buona campagna marketing focalizzata su un prodotto semplice, in numero scarso che implementa il desiderio del possesso, riesca a vendere (quasi) tutto. Soprattutto se questo tutto ha un prezzo irrisorio, praticamente povero.
E sulla povertà bisognerebbe proprio porre attenzione. Non perché la pandemia e quel che ne consegue ci ha reso più poveri. Dietro alla ressa alla Lidl non c’è un bisogno reale o indotto da blasonati influencer pagati per la loro sponsorizzazione.
Dietro quelle file ci sono anni di street style, di moda che ha demandato a chi sembrava lontano dalle passerella di raccontarla e di immaginarla. Ci sono i cantori del mood delle periferie più periferiche.
Ci sono Demna Gvasalia, Virgil Abloh o Matthew Williams, per citare i più celebri. Ci sono le working class del blocco sovietico e le t-shirt DHL da 600 euro di Vetements o le borse Ikea in pelle blu da 2mila euro e le ciabatte da hotel di Balanciaga.
Il feticcio sono diventati i sobborghi, quelli dove la moda alta si nutriva e che alimentava con trend scouting. Ora, forti della loro potenza a base di like, di numeri e di potere di acquisto hanno voluto decidere senza filtri, mettendo da parte i poteri forti di advertising e griffe, puntando su un accessorio basico, eccentrico e riconoscibile, e a un prezzo alla portata di tutti, e ribaltando con u’ironia diabolicamente paradossale la passerella. E tutto ciò senza i poco amati hashtag #sponsored o #adv.
Chissà se le felpe dell’Ikea, con basico codice a barre stampato su total white, dopo il successo in Giappone, arriveranno anche qui e verranno accolte con eguale bramosia. Almeno rispetto alle sneaker Lidl hanno una scelta cromatica decisamente più pacata.