Il nostro corpo ci appartiene davvero? A Parigi, alla settimana della haute couture, Balenciaga apre la sfilata facendo indossare ai suoi modelli maschere/caschi che tolgono identità, perché eliminano la specificità di ognuno. Gli abiti finali, accompagnati da volti scoperti, sono così ingombranti da fagocitare il corpo e da impedire i movimenti. Le modelle di Schiaparelli vedono le loro silhouette modificate da enormi bouquet di fiori che balzano fuori da tailleur e vestiti, da gonne bocciolo, da spalle rinforzate di piume o da vite strette in bustier. Viktor & Rolf hanno mostrato come un abito possa mutare il fisico a proprio piacimento. Sono saliti in passerella e hanno esemplificato come, tirando una fettuccia di stoffa, si possa passare da power suit maschili, ingessati tra colli e spalle enormi, a completi più morbidi, che ricadono in pieghe e perdono ogni assertività.
Intanto, fuori dagli spazi e dai tempi della moda, che, spesso anticipano ben più di una stagione temporale, il corpo e ogni scelta su di esso e sul suo futuro viene strappato dalle mani delle sue proprietarie. Con una sentenza Made in USA la Corte Suprema abolisce in un attimo il diritto all’aborto, tra le critiche di molti, ma anche gli applausi di altrettanti ben al di fuori dei confini americani. E tutti a sindacare e legiferare su una scelta talmente intima e personale che avviluppa corpo e psiche e non può essere capita (e tantomeno giudicata) nemmeno da una sorella, un compagno, un’amica.
Quel qualcosa che ci portiamo dietro e addosso fin dalla nascita, che amiamo, odiamo, bistrattiamo, mutiamo, a volte mitizziamo, la nostra pelle, le nostre ossa, ogni scalanatura di un ricordo e di un sorriso, soprattutto se appartenente a una donna, continua a essere giudicato. “Ti sei ingrassata, ti sei dimagrita, come stai bene, sei stanca…”
Il body shaming continua a essere sottile e ad abbattersi come una congiura. Basta vedere il caso di Vanessa Incontrada, dove a cicli più o meno regolari di tempo, la questione è sempre la stessa: non ha più la stessa figura che aveva a venti anni. Ma lei è solo un caso, celebre e da copertina. Poi c’è tutto un mondo di costrizioni estetiche sommerse, che diventano anche ostacoli psicologi, perché ingabbiano le persone e le obbligano a diventare personaggi di una loro propria commedia.
Fuori dagli standard, ma vicino ai corpi e ai battiti dei loro cuori è Pierpaolo Piccioli, da Valentino, con la collezione haute couture The Beginning. Le fotografie degli inizi della maison, di quel glamour perfetto e patinatissimo sotto i flash dei paparazzi, sono note a tutti. Sovrapponendole con quelle di oggi è quasi liberatorio scoprire che i bordi non coincidono più, che c’è un vento diverso che scompiglia le chiome. E cosa importa se a quel punto le acconciature non sono più pettinate e laccate. «Voglio che la couture, per sua natura elitaria, sia aperta a tutti. A chi non rientrava nei canoni certe passerelle erano, un tempo, precluse. Oggi apro a questa umanità uno dei luoghi famosi nel mondo, la scalinata di Trinità dei Monti, perché voglio che dalle periferie dell’estetica possano accedere a quella centralità della bellezza che coinvolge e stravolge, che può cambiare davvero le cose con la sua potenza, che può rendere la democrazia e la libertà, che tanti dispotismi cercano in questo momento di soffocare, tangibili e vivi in mezzo a noi».
Anche per questo, forse, ha scelto Roma: bella e dannata, ricca di contrasti che nemmeno sa di possedere, con il barocco e la nudità cruda delle catacombe, con gli sguardi morbidi della madonne a ogni angolo di strada e la barbarie dei cassonetti che trasbordano orrore, con gli stucchi dei salotti buoni (che tanto buoni, poi, forse, non sono) e il metallo consunto del gazometro, i tanti conservatori e quelli che portano avanti nuove idee con difficoltà a farsi sentire.
Non importa se un ragazzo un giorno decida di abbigliarsi con in tuxedo baciato dalle stelle e quello seguente con un abito in organza giallo acido che gira su rouche e plissé. Che la tunica immersa in pietre e perle possa essere di lei o di lui, proprio come il cappotto in volute di organza. E gli short stile boxer, magari argentati, possono essere indossati sotto una cappa lunare a una sfilata di alta moda su una delle scalinate più celebri del mondo. Non dovrebbe importare, dovrebbe solo ammaliare, come quel quadro finale in cui quei gradini grondano di vita vera, tra modelli e modelle di varie età, provenienze, vissuti, conformazioni fisiche e gli altrettanti vari sarti del l’atelier o Valentino, che hanno saputo e voluto dar vita a quelle creazioni. Lo stesso Pierpaolo Piccioli era dentro e fuori il contesto, lui, fieramente provinciale, ragazzo sognatore con mamma, zie o nonne che non erano assidue frequentatrici di salottini di alta sartoria, come invece annoverano nelle loro bio più o meno veritiere molti designer di ieri e di oggi.
Ma questo è il mondo della moda. Non tutti, purtroppo, lo coglieranno e gli spettatori spesso rimangono tali senza volersi dare nemmeno una chance da protagonisti.
E, allora, quel corpo potrebbe rischiare di rimanere staccato dalla realtà e continuare ad appartenere a un Metaverso fatto di avatar con lo sguardo un po’ vacuo e stordito da cartone animato.
Complimenti. Bellissimo articolo. Anche la moda, che da sempre è specchio dei tempi, può dare buoni esempi, farci sognare e insieme farci riflettere.