Michele Ciavarella, Giornalista e Fashion Critic è caporedattore di Style Magazine Corriere della sera. E’ uno degli opinionisti più amati e apprezzati del mondo della moda perché riesce con intuizione e garbo a mettere in luce le contraddizioni di questo settore. Gli abbiamo chiesto di svelarci i suoi scenari sulla ripresa e sui cambiamenti che avverranno nel mondo fashion, sempre che il settore colga l’opportunità. Un’intervista tutta da leggere.
L’era del covid 19: cosa non dimenticherai di questo periodo?
Apparteniamo a una generazione che non si è mai confrontata con una privazione di libertà. All’improvviso abbiamo dovuto accettare di stare chiusi in casa. Non dimenticherò proprio questa capacità di accettazione fatta in nome di un atto che mi piace pensare altruistico: abbiamo pensato alla nostra salute per proteggere quella di tutti. Non è male. Ma è una visione positiva e ottimistica che mi sono imposto. La realtà è forse leggermente diversa. In definitiva credo che non dimenticherò l’inefficienza della politica sanitaria, la «strage degli innocenti» nelle strutture per gli anziani che avrebbero dovuto proteggerli, le bare trasportate dai camion militari, l’arroganza dei politici che non sanno ammettere i loro errori e lo sciacallaggio di chi, anche in questa occasione, ha speculato per cercare di accrescere la propria popolarità, il proprio seguito e i propri consensi speculando sulla paura di tutti. Non dimenticherò le manifestazioni di egoismo che, purtroppo, si sono scatenate in questo periodo di pandemia. Non credo, invece, che mi resteranno nella memoria le dirette Instagram del chiacchiericcio scatenato dalla «tuttologia» che, proprio in questa occasione, ha mostrato tutti, e dico tutti, i suoi limiti. Infine, mi resterà il ricordo della privazione del movimento e dei viaggi: sono un Sagittario con ascendente in Sagittario, il mio segno è rappresentato da un Centauro con l’arco e la freccia. Se fai i conti sono quattro zoccoli, due archi e due frecce: come faccio a non muovermi? Infine, non dimenticherò la solidarietà, soprattutto quella sincera, che si è saputa manifestare con discrezione.
Il lavoro: cosa è cambiato per te in questi mesi e come ti sei organizzato?
Non ho smesso di lavorare un solo giorno. Lavoro in una redazione fantastica (quella di Style Magazine Corriere della Sera, ndr): il 9 marzo abbiamo prelevato i computer aziendali che ci hanno permesso di organizzare in meno di 8 ore una super efficiente organizzazione di «smartworking in lockdown». Una noia mortale lavorare senza scambio continuo con i colleghi, una confusione di email, di videochiamate, di riunioni in video… Eppure stando chiusi in casa abbiamo portato in edicola due bellissimi numeri (quelli di maggio e giugno) con una qualità di contenuti che ha forse superato i precedenti. O forse sembra a me perché li abbiamo messi insieme in condizioni per niente facili. Ho lavorato anche molto sul sito sia trasferendo online i contenuti del Style Fashion Issue ( https://style.corriere.it/tag/style-fashion-issue/ )arrivato in edicola proprio in quei giorni, sia lavorando a una serie di incontri, riflessioni, interviste che poi sono confluite nello speciale online «Cambiare la Moda: I temi per la ripresa» ( https://style.corriere.it/tag/moda-ripresa/ )
A livello editoriale hai notato dei cambiamenti in positivo?
Credo che a livello editoriale non si possa far finta che quello che è successo non sia successo. Pandemia e confinamento devono servici per modificare le priorità. Per noi che facciamo questo lavoro questo vuol dire modificare le visioni, abbandonare le certezze delle strade già tracciate, rispettare i nostri interlocutori che sono innanzitutto i lettori dando un’informazione corrette a contenuti meno compiaciuti, forse anche più scomodi ma più veri. Credo che il rapporto fra il lettore e la carta stampata sia cambiato per sempre e si può trasformare in un rapporto di fiducia se riusciamo a riconquistare sia l’autorevolezza dell’informazione sia la capacità di rendere evidente il valore del nostro prodotto, quotidiano, settimanale o mensile che sia. Dobbiamo riscoprire il valore della qualità dell’informazione che sotto forma di parole e immagini diamo al lettore. Parlando di musica, il filosofo Theodor Adorno sosteneva che «non è la musica a dover diventare popolare ma il popolo a dover diventare musicale»: questo per dire che secondo me i giornali non possono più accodarsi a quello che succede e raccontarlo ma devono sviluppare un rapporto diretto con i propri lettori trasformandosi in piattaforme informative di visioni.
Molti dicono “nulla sarà più come prima”, nella moda cosa cambierà?
Io dubito che questo periodo di «malattia» possa cambiare radicalmente tutto. I cambiamenti radicali li producono soltanto le rivoluzioni e non mi sembra questo il caso. I provvedimenti assistenziali dei governi di tutto il mondo alla fine potranno calmare il disagio sociale che la crisi economica (quella sì pesante). Non credo che tutto cambierà perché non ci sarà un cambio culturale dell’intera società. La moda è lo specchio della società, la racconta introducendoci un pizzico di sogno e di bellezza in più. Ma prima di dire che «niente sarà come prima» aspetterei un po’. Ci sono spinte conservatrici e nostalgiche che affliggono anche il sistema della moda.
Gucci, YSL, Armani sono i primi ad aver detto che sfileranno secondo un loro calendario e una loro stagionalità cosa ne pensi?
Voglio sperare che il sistema della moda sarà uno dei pochi a trasformare questa calamità in un’opportunità. Credo, infatti, che la moda abbia la capacità di studiare delle alternative in grado di eliminare alcune dinamiche che erano andate un po’ fuori controllo, come il numero delle collezioni annuali (pre-collezioni, collezioni, Cruise, Capsule), delle sfilate e degli eventi. Oppure la durata del prodotto, le dinamiche della distribuzione e della vendita, la politica degli sconti e, non ultimo, la prevalenza del marketing sulla creatività. Quindi, io credo che più che un abbandono del sistema i tre casi citati abbiano richiamato il settore a una generale riprogettazione dei tempi dell’intero sistema.
Credi che si arriverà alla fine delle Fashion week? Basta calendari?
Il problema delle Fashion Week e dei calendari delle sfilate era presente da tempo, molto prima della pandemia. Erano anni che si discuteva sui tempi e sulle modalità: anticipare le sfilate a luglio e a gennaio unendo Uomo e Donna a un certo punto era sembrata la soluzione più ragionevole. Poi non se ne fece nulla e quell’inazione portò alla nascita del fenomeno delle sfilate delle collezioni Cruise in giro per il mondo e a quello delle sfilate delle pre-collezioni con una dispersione di mezzi e di energie che oggi spinge tutti al ripensamento. Era logico che succedesse. Mi chiedo come mai degli industriali così illuminati non abbiano avuto il coraggio di prendere in mano la situazione già una decina di anni fa. Ora non so che cosa potrà accadere ma sono più che convinto che un coro non può sopravvivere se tutti i cantanti diventano solisti. Ma neanche se i tenori del coro, approfittando dei mezzi a disposizione, abbandonano al loro destino soprani, mezzosoprani e baritoni. Spero che il sistema riesca a trovare l’equilibrio per rimanere tale, cioè un Sistema.
Il ruolo del digitale e dei social potrà sostituire in toto gli eventi o la carta stampata?
Assolutamente no. E se per la stampa ho sempre creduto che digitale e carta non fossero alternativi ma complementari, mi sento di escludere che gli eventi della moda possano essere soltanto digitali e svolgersi sui social network. La moda è una creatività che riguarda il corpo, è quella che sta più a contatto con la persona: toglierle la fisicità sarebbe innaturale.
Il made in Italy per affrontare questa crisi tornerà a produrre completamente in italia ed a collaborare con la filiera del territorio? Quali mercati si apriranno prima?
Sono anni che mi auguro e che scrivo della necessità del reshoring: tornare a produrre in Italia per un’industria che in Italia ha la sua ragione d’essere sarebbe fondamentale. È stato un errore allontanare la produzione dall’Italia richiamati dal falso canto delle sirene sul basso costo del lavoro. Sono convinto che l’industria italiana se ne sia resa conto e che sia in buona parte ritornata in Italia. E mi auguro che chi non l’ha ancora fatto lo faccia al più presto.
Un messaggio agli operatori della moda
Lavoriamo nell’industria che ha trasformato la creatività e la bellezza in un business formidabile, punta di diamante della diplomazia e della promozione del nostro Paese nel mondo: non permettiamo che questa favolosa realtà vada dispersa a causa di egoismi e tornaconti corporativi.