Un pubblico di 18mila persone ha partecipato alla performance di Moncler in piazza del Duomo per festeggiare i 70 anni del brand. Del resto, Remo Ruffini, ad della griffe, ha dichiarato apertamente quanto sia importante la presenza e la formazione di una community per il marchio. Che non è stato l’unico, però, ad aprirsi a tutti durante questa fashion week milanese, che molti hanno annunciato, non a caso, come democratica e inclusiva. Diesel ha aperto le sue porte al pubblico, previa registrazione online, Philosophy ha messo in palio la possibilità di sedersi nel parterre grazie a Instagram e Anteprima ha festeggiato un altro compleanno, quello per i suoi 30 anni, presso l’Arena Civica all’interno di Parco Sempione rendendo visibile urbi et orbi il suo show. Questo aprirsi al mondo, però, va detto, non è una totale novità. Qualcuno ci aveva già provato, anche se gli esiti non erano stati dei migliori o particolarmente clamorosi.
Alla London Fashion Week di qualche anno fa erano stati, per esempio, messi in palio dei posti, previo pagamento di una non trascurabile cifra in sterline sonanti. Il che riportava il tutto al solito adagio che la moda è un mondo per ricchi, sia che si voglia comprare, ma anche frequentare: un messaggio vagamente snob, insomma. Nel 2016, poi, Kanye West aveva organizzato una sfilata del suo brand Yeezy al Madison Square Garden a New York, con più di 20mila persone in sala, che avevano diligentemente acquistato il proprio biglietto. Due anni dopo Virgil Abloh aveva invitato migliaia di studenti di arte alla sua sfilata di debutto per Louis Vuitton Uomo e un’idea simile è stata più recentemente perseguita da Pierpaolo Piccioli, che al suo show haute couture, a Roma, aveva voluto gli studenti delle scuole di moda.
Tutto ciò dettato da una voglia di inclusività che per la moda sta diventando sempre più un punto fermo, nonché un suo tallone di Achille, visto che dal di fuori viene spesso criticata per il discostarsi dalla realtà. Così, dopo aver portato in passerella modelle che vanno ben oltre le usuali taglie, ma, spesso, senza aver adeguato gli abiti alle nuove silhouette (e se ne è visto un chiaro esempio a New York), gli show si aprono a tutti.
Ma è davvero una strada percorribile e auspicabile?
È chiaro che l’esperienza live surclassa il pur fiorente streaming, perché regala il sogno di esserci, è qualcosa di unico e irripetibile, come la prima di un film. E, forse, il rendere questa visione il più fruibile a tutti è anche la conseguenza di un latente senso di colpa che accompagna la moda, che, in un modo o nell’altro, si trova spesso sul banco degli imputati.
Qualche mese fa è successo, perché osava proporre le sue idee mentre scoppiava una guerra e veniva invitata a fermarsi, mentre il resto del mondo proseguiva senza troppi problemi il proprio tran tran. Ora (a dire il vero, già da un po’), viene tacciata di snobismo perché chiude le sue porte al grande pubblico.
Eppure, altri settori hanno i loro eventi, incontri e riunioni e nessuno si sognerebbe di chiedere di partecipare. Forse è perché il fashion, in quanto viaggia costantemente con noi ed è noi, perché ci abbiglia e ci trasforma e in qualche modo definisce, è qualcosa che la gente sente estremamente suo e sul quale tutti possono e devono dire, sentenziare e condividere, in un afflato di populismo.
Ma quella vaga lontananza, quella piccola distanza, serve e la sfida è proprio lì: la moda deve riuscire a essere sufficientemente aperta per essere inclusiva e sufficientemente chiusa per restare esclusiva e creare quell’aura di vorrei ma non posso che le è necessaria.
Molte griffe, del resto, si sono già attrezzate in tal senso, su un nuovo livello. Le grandi case di moda, infatti, viaggiano per il mondo con le cruise e nei loro tour a 5 stelle portano solo un ristretto manipolo di eletti. Si creano, insomma, nuove forme di desiderio, quello che dà la spinta all’emozione e all’acquisto.
Il tutto per tutti, ricordiamo, ha creato il fast fashion: al di là dei risvolti ambientali deprecabili di questo settore, è divertente, permette di cambiare e anche di osare a chi non ha modo, voglia o possibilità di frequentare solo negozi di lusso. Ma una giacca low cost, sulla durata, non ha esattamente la stessa performance di una di boutique. E non fa sognare.