Non ci sono più le sfilate di una volta. A lockdown appena iniziato, nell’aprile 2020, Giorgio Armani, in una lettera aperta a WWD affermava, senza mezzi termini, quanto il fashion system dovesse cambiare, dovesse diventare meno spettacolarizzato e dovesse tornare al mettere al proprio centro gli abiti.
Di seguito a lui, in tanti iniziarono a predicare la poca importanza della sfilate. Così, un po’ per voglia di sperimentare nuove vie e molto per necessità, arrivarono i film, o i video che dir si voglia, e (ahinoi), malgrado anche qualche inquadratura ad effetto, una sorta di narcolessia colpì la maggior parte degli spettatori online.
Quindi, a pandemia (forse) al termine si è tornati al caro vecchio show fisico.
Ma guai farsi ingannare dall’apparenza. Le sfilate si saranno pure ripresentate esattamente come erano, ma i vestiti sono diventati quasi irrilevanti. Non si nota più se andrà il nero o se quello stilista ha portato in passerella più piumini o cappotti. Basta guardare alle sfilate recentemente conclusesi.
Di Balenciaga sono uscite più foto di Demna Gvasalia con la maglia dell’Ucraina che altro. Le immagini dello show sono sfocate e disturbate dalla tormenta di neve inscenata ad hoc e ciò che ha fatto più parlare sono stati i passi che affondavano nella neve e le borse sacche della spazzatura, dettagli che mimavano quelli reali di un popolo in fuga. Quelli di un «eterno rifugiato», come ha specificato lo stilista in una lettera su Instagram, dove sottolineava la sua vicinanza al popolo ucraino, col quale, da georgiano esule dal 1993, si sente di condividere un destino comune. La sfilata ha assunto una piega di condanna della guerra solo poco prima che Gvasalia decidesse che era giusto non piegarsi alle ragioni e agli egoismi «di un male che mi colpisce da più di trent’anni». In realtà, la stessa scenografia sarebbe servita per denunciare la crisi climatica e i comportamenti dissennati che l’hanno provocata e che ci ridurranno a vagare per lande gelate senza un futuro o una meta. Un significato, anche qui, che va ben al di là di vestiti e accessori.
Da Valentino il rosa, in una sfumatura tutta nuova che sarà classificata da Pantone come Pink PP, ha preso un valore del tutto particolare, con quel coraggio di sfida che contraddistingue il lavoro radicale e gentile di Pierpaolo Piccioli. Quella cromia, che ha impastato di sé ogni forma e spazio visivo, non è più la nuance leggera e frivola, spesso associata a una femminilità leggiadra, debole, finanche remissiva. Occupando ogni dettaglio ha riempito gli sguardi e li ha provocati: «Volevo che l’attenzione non fosse sul colore, ma su lavorazioni, tagli, volumi – ha dichiarato il designer – E su volti e personalità», tutti diversi, tutti con una storia da raccontare e con la quale incantare. Ancora una volta, come nella collezione pret-a-porter, Piccioli ha voluto portare la sua moda per strada, non lasciarla in un mondo elitario e che esiste solo tra gli stucchi e i cuscini damascati di salotti riservati a un gruppetto di poche persone, cieche davanti al mondo reale. «La moda è politica, perché si occupa di umanità e di diritti». Parole chiare, se già non fossero stati palesi i gesti compiuti dallo stilista: come la famosa haute couture dove chiamò in passerella quasi solo modelle di colore o quella, più recente, dove erano gli abiti che si adattavano alle diverse conformazioni fisiche e non il contrario, o, ancora, il processo di “risignificazione”, portato avanti con coraggio e determinazione, e la voglia di rivolgersi agli essere umani senza distinzioni di genere, fisionomia o censo, glorificando quelle differenza che, in genere, la moda tende a livellare e omologare.
Nel frattempo, le donne di Saint Laurent hanno cambiato il loro armadio e sono diventate essenziali, portatrici sane di una nuova sensualità sussurrata. Quelle di Louis Vuitton hanno rivissuto l’adolescenza, sperimentale, caotica, spesso piena di sbagli o scivoloni stilistici, ma alla forte ricerca di un’identità e vista come una madeleine di proustiana memoria. Da Miu Miu è ritornato in passerella l’uomo (lo si aspettava e annunciava da tanto), ma per vestirsi e pensare genderless, mentre Loewe ha proposto look metafisici per scappare dalla realtà.
Maria Grazia Chiuri, da quando è diventata direttrice creativa donna per Dior, porta avanti un femminismo consapevole, tra abiti pratici e dal tocco maschile, t-shirt programmatiche e collaborazioni artistiche che possano smuovere le coscienze. Per la collezione autunno/inverno del prossimo anno ha pensato a delle necessarie protezioni da applicare su spalle, fianchi, vita, che liberino da ogni restringimento di pensieri e di cuore.
Gli abiti non servono più per vestire i corpi, ma le idee. Le sfilate non devono più percorrere o precorrere una tendenza, sono diventate nuovamente specchio e guida della società, complessa, bistrattata, ferita, aggregazione di community pensanti ed emozionabili.
I vestiti non sono più corti o lunghi, gialli o verdi e spiccano il volo dalle loro silhouette. Sono qualcosa di più: possono fare dichiarazioni ed esortare a pensare.