Contenuto e contenitore: su questa fantastica coppia di opposti ci si potrebbero scrivere trattati. Tanto più nella moda, che si nutre del primo per creare il secondo. O viceversa. E dopo la pandemia, che ha contato i passi del nostro contenuto corporale tra il contenitore misurato in metri quadri delle nostre case o nelle taglie comode di felpe e leggings, è arrivato il momento di uscire. E se le sfilate, le prime dal vivo nell’era post-Covid, non si discutono, ma si amano soltanto, le passerelle illuminate da luci e lustrini non se la passano tanto bene. O forse si.
Da una parte, a Milano e, poi, a Parigi ha trionfato la bellezza della gente comune. Questo non significa mettere qualche vestito addosso a una modella curvy, come da Versace, a una nera o a qualche signora boomer che ha in evidenza sulla carta d’identità più che la data di nascita l’eleganza innata, tanto per barrare le caselle della decantata inclusività. Il processo è tutt’altro: portare in pedana quelli che siamo, che piaccia o meno.
Da Balenciaga il pubblico dello spettacolo è diventato protagonista e viceversa. E in molti sono stati accompagnati sul red carpet direttamente senza trucco. Tant’è che per la casa di moda sfila la classe media che più classe media non si può, ovvero la famiglia dei Simpsons. Gvasalia, del resto, si era già lanciato nella spettacolarizzazione dell’anonimato col look pensato per il Met Gala.
Da Valentino Pierpaolo Piccioli fa passeggiare i suoi modelli per le strade di Parigi, tra i bistrot, «sporcandoli di vita», dice lui. E bagnando gli orli dei loro prodigiosi abiti di quella pioggia che di base angustia i comuni mortali e non le divinità in tacchi a spillo e piega perfetta che da sempre sono protagoniste del fashion system. Lo stilista racconta che la maison, precedentemente, si aggirava tra le stanze e gli stucchi dorati di castelli circondati da labirintici giardini, ma che la realtà non si svolge li e ha come colonna sonora non il dolce sottofondo di un’arpa, ma la miscela letale di clacson, clamori e frasi disconnesse. Piccioli già da un anno ha scelto di affidarsi a uno steeet casting, a un’umanità variegata e portatrice sana di un vibrante fascino più che di una blanda bellezza, una community di idee ed estetica, che finisce in quella ribalta che prima le era stata sempre preclusa. Scelte simili da Andreas Kronthaler for Vivienne Westwood, anche se, forse, più a favore di una ricerca teatrale. Da Marco Rambaldi sono protagonisti i corpi, diversi, orgogliosi e sovversivi di uomini e donne: tutti raccontano una storia e una voglia di liberazione e i vestiti si adeguano senza fare una piega.
E, poi, c’è l’ideale, il vestito che non ha alcuna voglia di conformarsi, ma che ti impone la sua estetica. Ci sono le paillette che per questo inverno illuminano quel vuoto che ci è rimasto dentro e ci sono quelle pance scoperte e quei fianchi perfettamente disegnati che Fendi impone ai suoi uomini e Miu Miu alle sue donne, tanto per citarne due, rintuzzando un modello un po’ datato e altero che rifugge dal mondo comune.
Chanel su questo concetto ha messo su addirittura una sfilata, a Parigi, dove ha celebrato sotto i flash dei fotografi l’inizio degli anni Novanta. Ragazze su una passerella asettica, che fanno il verso alle top model di un tempo, e outfit che richiamano alla mente senza troppi giri di stoffa quelli visti su Naomi Campbell o Claudia Schiffer. E, in tema di amarcord, non a caso, proprio ora, quest’ultima ha recentemente curato la mostra “Captivate!” al Kunstpalast di Düsseldorf, retrospettiva sulle foto di moda più significative esattamente degli anni Novanta, amati, rimpianti, forse fin troppo idealizzati e favore di generazione Z o di chi c’era e vorrebbe riforgiare il suo corpo e il suo spirito sul “si stava meglio quando si stava peggio”. Ma bisognerebbe ricordare che tra stacchi di coscia e boccoli dorati, sempre in quel decennio, arrivò il fascino magnetico di Kate Moss. E già nei dorati anni della massimalismo estetico qualcosa cambiò per sempre.