Nella società contemporanea il cibo ha assunto e assume nuove caratteristiche. Riprodotto costantemente da immagini che popolano i media e i social network, è oggi paradigma della spettacolarizzazione della vita quotidiana.
Seguendo l’aforisma di Daniel Spoerri che dà il titolo alla mostra, l’esposizione vuole costruire un dialogo intergenerazionale e intermediale a partire dall’artista romeno, che conserva e preserva scene di vita ordinaria facendo riferimento alle ritualità spettacolari del consumo dei pasti o di qualsiasi azione. Inserendosi in un’ampia riflessione sulla quotidianità, sulla ritualità, sull’alchimia e sul cibo (“sul cibo, con e senza il cibo, attraverso il cibo e il corpo”), quattro artisti declinano, consapevolmente e in modo sempre differente, un aspetto della poetica di Spoerri.
Quello che vedete non è né cibo, né arte – il titolo del nuovo progetto di Galleria Gaburro nello spazio espositivo di via Cerva 25 a Milano -esplora l’immaginario di Daniel Spoerri con un percorso di 27 opere che, dal 30 Ottobre 2024 al 31 Gennaio 2025, sfidano la percezione dei visitatori intrecciando presenza e assenza, reale, iperreale e surreale.
La mostra collettiva – curata da Matteo Scabeni con lavori firmati da Iain Andrews, Leda Bourgogne, Nebojsa Despotovic, Daniel Spoerri eMalte Zenses – interpreta infatti l’alchimia della tavola, dove tutto è una trasformazione costante e ripetuta della realtà.
Daniel Spoerri ha segnato una svolta nella storia dell’arte preservando scene di vita quotidiana, come i rituali legati al consumo dei pasti. La sua pratica, in linea con il Nouveau Réalisme, consiste nel repêchage di oggetti consunti, de-contestualizzandoli per renderli altro. Nei suoi tableau-piège (quadri trappola), ricostruisce le architetture delle tavole imbandite, intrecciando simbolismi e suggestioni intime e biografiche.
Le opere di Iain Andrews ibridano episodi biblici e testi come Paradise Lost, creando vortici di colore dove forme dettagliate si mescolano a elementi appena accennati per coinvolgere stimoli psicologici e stratificazioni fisiche di colore e significato. Andrews cattura un’atmosfera surreale e un dolore esistenziale, liberando l’arte attraverso la leggerezza del gesto pittorico. La stessa leggerezza degli oggetti appesi alle pareti, intrappolati nella rappresentazione, di Spoerri.
Indagando le pratiche di controllo del corpo, luogo di volontà, Leda Bourgogne esplora il tema dell’auto-difesa e dell’auto-controllo. Le sue opere, contrapposte per materiali, riflettono un andamento tra stress e distress, rappresentando un percorso di liberazione e riappropriazione dell’identità attraverso contrazione, concentrazione e catarsi.
Nebojsa Despotovic si appropria degli anfratti misteriosi della memoria per celebrare la pittura come narrazione intima e personale. Le sue opere, caratterizzate da atmosfere espressionistiche, esplorano la quotidianità degli oggetti di Spoerri, creando un nesso tra realtà e soggetto in cui le figure si collocano sul fragile confine tra ciò che è vero e la deformazione estetica del ricordo.
Le opere di Malte Zenses ampliano il vocabolario della pittura astratta e del nuovo realismo, integrando ricordi e luoghi in codici astratti. Le sue immagini creano un’armonia tra personale e impersonale, accompagnando lo spettatore in un percorso di riflessione. La sua poetica esplora memoria e oblio, offrendo un’educazione al ricordo e alle sensazioni che ci ancorano alla realtà e alla vita.
Sul segno del gesto artistico di Spoerri, che consisteva nell’attingere da ciò che è reale per agire nella sua rielaborazione estetica trasformando inevitabilmente l’oggetto in altro, la narrazione della mostra è infatti costruita attraverso una tensione reciproca tra due dimensioni: l’immanente, il reale– quel luogo in cui la trasformazione avviene – e l’alchemico, l’oltrereale – quel luogo fisico e metaforico che si crea dopo l’alterazione della materia. Le differenti visioni poetiche degli artisti si intrecciano creando un dialogo su questa tensione impossibile tra la realtà e la sua trasformazione e trasfigurazione, tuttavia pur sempre e inevitabilmente legata alla realtà.
Lo spazio della mostra è quindi uno spazio senza limiti e confini definiti (se non quelli, naturali, delle opere) in cui questa indagine sul cibo si intreccia alla sua memoria e al suo processo di trasformazione.
Dunque, “quello che vedete non è né cibo, né arte”.