Luca de Meo ha presentato agli analisti finanziari il suo nuovo gioiello: Ampere. In una lunga intervista rilasciata al quotidiano francese Le Monde, di cui diamo un’estratto, ha spiegato che Ampere non é il nome di un’auto, ma di una filiale interamente dedicata ai veicoli elettrici. “Una rivoluzione”, ha detto de Meo, che ha insistito per esserne l’amministratore delegato, in aggiunta ai suoi compiti alla guida del Gruppo Renault. Dei 105.000 dipendenti, 11.000 sono legati a questa società, nata il 1° novembre. Tra questi, tutti i team degli stabilimenti di Douai, Maubeuge e Ruitz (Pas-de-Calais).
Indossando una polo nera con il nuovo logo Ampere – una losanga formata a sua volta da piccole losanghe – l’8 novembre il manager ha dato il via alle operazioni della nuova società unendosi al personale.
L’obiettivo di Luca de Meo è chiaro: vuole che i team di Ampere pensino alle auto elettriche mattina, mezzogiorno e sera e che si muovano in questo nuovo mercato con la stessa rapidità di Tesla e Byd. Per mettere a disposizione i mezzi, ha convinto diversi azionisti a unirsi all’impresa: l’azienda tecnologica Qualcomm, che produce circuiti integrati, i suoi alleati Nissan e Mitsubishi, inserendo anche Google, che ora è un partner.
“Dobbiamo fare un salto generazionale”, ha dichiarato de Meo, che sta già pensando a un “software defined vehicle” per il 2026 e alle auto che arriveranno dopo il 2030. Per il 2031 punta a lanciare sette vetture, vendere 1 milione di veicoli e raggiungere un fatturato di 25 miliardi di euro.
Un boss dalle ampie visioni internazionali, capace di colloquiare in sei lingue: italiano, francese, inglese, tedesco, spagnolo e portoghese, considerato un camaleonte in grado di comprendere tutte le culture. Dopo aver iniziato la sua carriera in Renault, ha lavorato in Toyota, Fiat, Audi e Seat, ora segue, con grande attenzione, i metodi innovativi dei nuovi arrivati nel settore. Renault in Corea, ad esempio, produrrà i modelli Polestar, uno dei marchi elettrici di alta gamma dell’azienda cinese Geely, in modo da poter esportare le sue berline negli Stati Uniti senza dover aggiungere il dazio doganale del 27,5% applicato al “made in China”.
Foto: Le Monde