È un fatto che il prezzo del petrolio, comunque esso venga stabilito tenendo conto dei costi di estrazione, trasporto, raffinazione, distribuzione e tasse è largamente inferiore a quello che dovrebbe essere. Un’affermazione che sembra inverosimile, ma che è esatta se si tiene conto di quanto costerebbe “caricare” sul prezzo del petrolio la riparazione di tutti danni ecologici che derivano da suo utilizzo. Tanto per fare un esempio, in questo momento ci sono 25.000 tonnellate di combustibile fuoriuscite da un enorme serbatoio in Siberia che stanno inquinando il territorio circostante e che sono confluite in un fiume che sfocia nel Mar Glaciale Artico. Il presidente russo Vladimir Putin ha dichiarato lo stato di emergenza e il danno sarà comunque tra quelli definiti “incalcolabili”. Lo stesso avvenne per la petroliera Exxon Valdez incagliatasi in Alaska nel 1986 che provocò uno dei più grandi disastri ecologici della storia. La petroliera Safer, a pieno carico, è abbandonata dal 2015 ancorata al largo dello Yemen, inavvicinabile per via della guerra civile in corso (di cui quasi nessuno parla) ed è in procinto di affondare superando il record d’inquinamento della Exxon Valdez. Il che significa che poi il conto lo paga il pianeta, come avviene per le perdite dai condotti; a sommare il costo in materiale e vite umane delle tante guerre combattute per accaparrarsi il controllo dei pozzi e per finire con le emissioni di anidride carbonica (CO2) fuori controllo e conseguente “effetto serra”, responsabile dell’aumento della temperatura media della Terra. Lo scioglimento di ghiacci e ghiacciai che ne consegue, che è sotto gli occhi di tutti, determina l’aumento del livello dei mari e l’esaurimento delle sorgenti in quota, il che potrebbe causare una crisi idrica globale. Chi vuole approfondire, può interessarsi a cosa sta succedendo tra Etiopia, Sudan ed Egitto per via di una diga in costruzione sul Nilo che arricchirà le riserve idriche del primo dei tre Paesi a danno degli altri due, che sono “a valle”.
Vogliamo mettere tutto ciò in conto al prezzo della benzina o del diesel alla pompa? Impossibile, e perciò continuiamo così, erodendo la vivibilità del pianeta che “paga” i danni del petrolio con l’estinzione di tante forme di vita e la riduzione del territorio abitabile e coltivabile; fin che ce la faremo. Si stanno prendendo (sulla carta) misure drastiche per contenere l’aumento della temperatura al massimo di 1,5 °C entro la fine del secolo, il che non rimedia a nulla per il semplice fatto che già ora stiamo andando male e, in caso di successo, andremmo solo un tantino peggio. Quelli che si occupano seriamente di queste cose, spesso inascoltati se non derisi, cercano di mettere in evidenza che occorre agire subito a partire da queste necessità: abbandonare gli egoismi nazionali perché “siamo tutti sulla stessa barca”, combattere efficacemente gli incendi e aumentare la riforestazione, limitare l’anidride carbonica inviata nell’atmosfera e tentare di ridurre, catturandola, quella che già vi si trova. Ciò comporta l’utilizzo massiccio dell’energia solare che arriva abbondante sulla Terra (sotto forma di luce e di fenomeni atmosferici come il vento, le maree e le precipitazioni in quota) per poi distribuirla convertita in energia elettrica. Imprigionare l’anidride carbonica laddove viene prodotta ed estrarre quella che c’è nell’aria sono due settori della Ricerca che vanno finanziati e che stanno dando i primi risultati interessanti. Similmente a quanto fa la vegetazione, che si nutre di anidride carbonica per produrre legno e ossigeno, si studiano reazioni chimiche che scompongano la CO2 recuperando il carbonio che verrebbe utilizzato per produrre materiali come i mattoni piuttosto che la plastica e persino carburanti. In questo caso l’idrogeno necessario potrebbe anche essere ricavato dal metano, presente nell’atmosfera e annoverato tra i gas dannosi a effetto serra. Il processo di cattura e riutilizzo dell’anidride carbonica per la fabbricazione di prodotti utili potrebbe presto diventare una nuova e redditizia industria globale, come sostengono studi recenti delle Università di Oxford e di Los Angeles (UCLA).